Presentazione

Questo spazio, amici lettori, è dedicato a voi.


Nato inizialmente per presentare al pubblico il mio primo romanzo, La signora del borgo
, il blog ha registrato subito le prime recensioni dei lettori e si è arricchito successivamente di molti altri argomenti che non erano soltanto quelli relativi ai temi trattati nel romanzo. Col trascorrere del tempo il blog si è caratterizzato sempre più come uno spazio multitematico, riempito soprattutto dai tantissimi commenti dei frequantatori, alcuni dei quali veri e propri fedelissimi, presenti sin dalla nascita del blog e tutt'ora attivi.

La pubblicazione del secondo romanzo, La fucina del diavolo, anch'esso edito per i tipi di Bastogi, insieme con le immancabili recensioni, ha ulteriormente alimentato i temi di discussione, accentuando il carattere del blog di volersi presentarsi come spazio aperto ma anche con uno stile proprio. Uno stile che lo ha contraddistinto sin dall'inizio e che, per certi versi, lo ha reso unico fra i tanti spazi interattivi presenti nel web: moderazione negli interventi e mantenimento del confronto sul piano delle opinioni.

Tutti coloro che vogliono far sentire la propria voce sono dunque i benvenuti e tutti devono sentirsi liberi di trattare gli argomenti che ritengono possano essere di interesse degli altri partecipanti alla vita del blog. Riservo a me stesso il ruolo di moderatore, ruolo che, per altro e fino a ora, non ha mai avuto motivo di andare oltre l'invito a tenersi nei limiti tracciati dagli stessi frequentatori.

Bene arrivati a tutti, dunque, e fatevi sentire.

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Spizzicando nella quotidianità

9 Settembre 2011 - Pensiero del giorno

La vita è come un aquilone, legato a un filo tenuto dalla mano infantile del fato.


17 febbraio 2012

Il pensiero va a Giordano Bruno, arso in Campo dei Fiori. Da allora si sono spente le fiamme del rogo, ma non quella della libera investigazione sulla natura dell'universo e dell'uomo.


14 marzo 2012

All'essere umano non è dato scegliere se essere o no intelligente, in compenso gli è dato scegliere se comportarsi da stupido.


7 Aprile 2012

Agli amici del blog i miei auguri per un rinnovamento radicale del loro Essere e che questa luna piena di Primavera faccia risorgere in loro, risplendente di nuova luce, la gioia per la Vita nel e per il Bene.

Le interviste a Ennio Valtergano

La Signora del borgo è stata ospite di Container, il programma culturale di Radiogoccioline, la radio web a diffusione globale.

Per riascoltare l'intervista trasmessa da Radiogoccioline clicca qui


Servizio TV sulla presentazione di Reggio Calabria del 28.12.2010

Per gli amici che lo desiderino, è possibile guardare il servizio sulla presentazione del 28.12.2010 a Reggio Calabria.

Il servizio, completo di intervista, è stato trasmesso da ReggioTV nel corso del Telegiornale del 29-12-2010 ore 14.

Per guardare il servizio, entrare nella Home Page di RTV e cercare, dopo aver cliccato nel riquadro "Guarda il telegiornale", il tg del 29-12-2010 ore 14. Servizio TV sulla presentazione di Reggio Calabria del 28.12.2010

Leggi l'intervista all'autore e la recensione al romanzo pubblicate l'8 marzo 2011 sulla rivista on-line Mondo Rosa Shokking , a cura di Carlotta Pistone

http://www.mondorosashokking.com/Morsi-Dal-Talento/Intervista-a-Ennio-Valtergano/


http://www.mondorosashokking.com/Dalla-Libreria-Rosa-Shokking/La-Signora-del-borgo-di-Ennio-Valtergano/


Una nuova intervista è stata pubblicata al link sottostante

http://www.ilpiacerediscrivere.it/intervista-ad-ennio-valtergano/



martedì 8 maggio 2012

L'incendio - Dal nuovo romanzo non ancora pubblicato

Ecco per gli amici che mi seguono sul blog un altro stralcio del romanzo in corso d'opera. Spero vi piaccia. Buona lettura!

L’incendio era avvampato d’improvviso. Violento.
I bagliori accesi dalle lingue di fuoco andavano a fondersi con i guizzi rosso vivo del tramonto, squarciando la volta di cielo sovrastante la cittadella. La prima a subire l’aggressione del fuoco era stata la scude­ria, costruita per massima parte in legno. Le pareti esterne non avevano impiegato molto per essere divorate dalle fiamme che subito dopo si erano estese alla struttura e alle travi di sostegno del tetto.
I nitriti delle bestie, levatisi allo sprigionarsi del fumo e delle avvi­saglie della combustione, avevano dato l’allarme e Melandro, aiutato dai figli, per fortuna tutti in casa, era riuscito a portare fuori i cavalli prima che accadesse il peggio. L’operazione era andata a buon fine, ma a costo di spendere tempo prezioso e così, quando lo stalliere e i figli avevano rivolto l’attenzione alle fiamme, queste, non affrontate e domate nei primissimi minuti e anzi alimentate dalla paglia presente in abbondanza, avevano avuto modo di avviluppare l’intera stalla.
Con uno schianto secco, mentre Melandro e i tre figli maggiori si stavano affrettando con tini e recipienti di fortuna, il tetto crollò in una esplosione di scintille e schegge incandescenti. I frammenti infuocati volarono dappertutto e alcuni di essi penetrarono attraverso una delle finestre della piccola abitazione adiacente alla stalla.
Fu questione di poco. Le urla di Claretta sovrastarono per un momento il rumore sordo e il crepitìo prodotti dall’incendio. Melandro mollò il secchio, che si rovesciò spargendo l’acqua intorno, e si precipitò dentro. Fu preso alla gola da una zaffata di fumo acre e caldo. Tossì più volte e in preda all’ansia fece correre lo sguardo in giro, cercando con gli occhi Claretta e il bimbo. Il fuoco aveva già aggredito l’asse che faceva da tavolo, i cavalletti che lo sostenevano e gli scanni; le prime fiamme avevano preso a lambire gli infissi e la porta. Presto si sarebbero avvinghiate a tutto quello che avessero trovato di combustibile.
– Claretta – urlò lo stalliere con voce roca, mentre si precipitava verso il letto.
Claretta era lì, gli occhi sbarrati e impietrita dal terrore, con Gede­one che le si abbrancava al petto urlando e piangendo.
Senza stare a pensare, Melandro afferrò la coltre dal letto e la gettò intorno alle spalle della moglie, coprendole la testa e facendo in modo che riparasse anche il piccolo. Afferrò Claretta per un braccio e la tra­scinò verso l’uscio, attraversando il locale invaso dal fumo. Appena fuori respirò a pieni polmoni e lasciò che la moglie e il piccolo facessero altrettanto.
– Lasciate perdere la stalla e pensate alla casa – urlò ai figli mentre si dirigeva verso il portone di ingresso. – Metto al sicuro Claretta e il bambino e torno da voi.
Uscì in strada e si trovò circondato dai primi volenterosi. Si trat­tava soprattutto di giovani, ma non mancavano uomini già maturi e qualcuno addirittura attempato: erano stati richiamati dai bagliori delle fiamme, a buona ragione preoccupati dalla possibilità che l’incendio si estendesse alle case vicine.
– Date una mano ai miei figli – li esortò con la voce ancora roca per il fumo ingoiato poco prima, – il fuoco ha attaccato la casa.
Melandro lasciò Claretta e Gedeone nei pressi di Rebecca, una co­noscente uscita anche lei in fondo alla strada, e tornò indietro di corsa. Urlò ai sopravvenuti di portare tutti i secchi e i tini disponibili: era indi­spensabile organizzare alla meglio una catena che consentisse di far convergere sul fronte delle fiamme, il più rapidamente possibile, l’acqua prelevata dal pozzo antistante la stalla, ormai ridotta a un cumulo di ma­cerie fumanti.
Nel volgere di poco la catena era all’opera. Due dei figli di Melan­dro si davano da fare al pozzo, mentre gli uomini, organizzati su duplice fila e al comando dello stesso Melandro, riversavano fiumi d’acqua sui resti delle travi ancora in fiamme e all’interno della casa dello stalliere. A giudicare dall’intensità e dall’estensione del fuoco, v’era da pensare che ben poco di quel che si trovava in casa sarebbe stato sottratto alla furia ignea. Ma gli uomini mostravano di non darsene da conto e anzi proce­devano con impegno, cadenzando l’azione di braccia e gambe sul ritmo degli incitamenti vocali. L’opera di spegnimento proseguì senza interruzione fino a tramonto inoltrato e finalmente il fumo nera­stro lasciò il posto alle volute biancastre, segno che il fuoco era ormai sul punto di estinguersi del tutto. Dalle due file si levarono espressioni di esultanza, seguite da energiche pacche sulle spalle e reciproche con­gratulazioni.
Ma l’euforia durò poco.
D’un tratto, così come erano esplose, le grida di vittoria si spen­sero insieme alle ultime fiamme visibili e gli sguardi si incrociarono nell’espressione smarrita della delusione.
I rigagnoli nerastri che fuoriuscivano dalle finestre di casa Tolomei non annunciavano nulla di buono.

Il mattino dopo, alle prime luci dell’alba, Sparviero si aggirava fra le macerie ancora fumanti, sotto gli sguardi esausti che bucavano volti anneriti dal fumo e rabbuiati dalla fatica. Aveva l’aria più torva che mai: della dimora dei Tolomei non era rimasto quasi più nulla oltre ai muri calcinati. Il capitano scavalcò quel che restava di una trave carbonizzata e procedette con cautela: il rischio di altri crolli era ancora vivo, anche se in piedi era ormai rimasto ben poco. Si lasciò andare a un’impreca­zione colorita, mentre osservava desolato la devastazione prodotta dalle fiamme. Se la distruzione causata dall’incendio non aveva assunto le proporzioni della tragedia, si disse, lo si doveva al lavoro instancabile degli abitanti della cittadella e dei suoi uomini, andato avanti per l’intera notte.
Usando il lembo della casacca a mo’ di straccio, uno degli appar­tenenti al piccolo esercito di volontari stava tentando invano di ripulirsi il volto dalla caligine nerastra.
– Gran brutto affare – commentò. – Si direbbe che il destino si sia voluto accanire su questa famiglia sfortunata, completando col fuoco la persecuzione iniziata quattro anni fa.
– Già – bofonchiò secco Sparviero. Si chinò verso la poltiglia in­forme per raccogliervi un oggetto che aveva attirato la sua attenzione. Si trattava di una posata. Di una forchetta, per la precisione. L’oggetto fa­ceva parte della minuscola collezione di strumenti tanto insoliti quanto rari che i Tolomei usavano a tavola in luogo delle mani o del solo col­tello. Di quella stravaganza era andata fiera soprattutto Corinda, la mo­glie del notaio Ugo Tolomei rimasta poi vedova col suicidio del marito. La raffinata ricercatezza della nobildonna, perita anch’essa in tragiche circostanze, era stata spesso materia di commenti e di spettegolio: evi­dentemente, l’invidia rappresentava una qualità non rara entro le mura della cittadella e le chiacchiere ci mettevano poco per rimbalzare di bocca in bocca, specialmente fra le donne di un certo lignaggio, quelle che non avevano di che trascorrere il proprio tempo.
Per un po’ l’ufficiale stette a osservare con curiosità tinta di mesti­zia l’oggetto deformato dal calore, poi scosse il capo e lo restituì al fango. Riprese a camminare, sempre tenendo lo sguardo all’altezza del suolo come se cercasse qualcosa, ma senza sapere lui stesso cosa stesse cercando.
Si avventurò per la scala in pietra, unica parte dell’edificio che pa­reva miracolosamente intatta, con l’idea di ispezionare il piano superiore e sempre che le condizioni dei resti glielo avessero consentito. Senza abbandonare la prudenza, saggiò la solidità del pavimento del ballatoio.
Pareva tenere.
Avanzò radente al muro, lungo il tratto che, a suo giudizio, offriva più sicurezza. Raggiunse il vano dove un tempo era installato l’uscio in legno massiccio. I cardini semifusi testimoniavano dell’inaudita violenza del fuoco. Buona parte del pavimento non esisteva più: sostenuto da travi in legno, era crollato una volta che gli era venuto meno l’appoggio. Delle travi portanti rimanevano solo alcuni monconi ancora incastrati nel muro. Sparviero considerò che, attaccata dal fuoco, la parte centrale delle travi doveva essere crollata piuttosto in fretta, lasciando i monconi semicarbonizzati ma ancora in grado di sostenere la parte periferica del pavimento, quella più vicina ai muri di sostegno.
Di nuovo, portò il piede destro in avanti, esercitando una decisa pressione con lo stivale. Rassicurato sulla tenuta, decise di avanzare con circospezione, sotto gli occhi allibiti degli uomi rimasti a guardare di sotto, preoccupati per quello che a loro aveva tutta l’aria di essere un comportamento sconsiderato.
Aveva fatto appena pochi passi quando notò in un angolo qual­cosa di strano. Con grande cautela raggiunse l’oggetto della sua at­tenzione e si chinò per raccoglierlo. Si trattava di un pezzo di legno se­micombusto, attorno al quale rimanevano avvolti dei frammenti di straccio, anch’essi, inspiegabilmente, non del tutto consumati dal fuoco. Sparviero fece scorrere uno dei frammenti fra i polpastrelli di pollice e indice e portò subito dopo le dita alle narici. Comprese all’istante.
Catrame.
Fra le mani stringeva i resti di una torcia rudimentale.
Dunque, l’incendio era stato appiccato di proposito. Probabil­mente innescato in più punti, concluse l’ufficiale. Chi aveva deciso di dare alle fiamme l’abitazione dei Tolomei aveva eseguito il lavoro con la precisa intenzione di distruggere ogni cosa.
Ma a quale scopo?
Scosse di nuovo il capo, tornò sui propri passi e riguadagnò la scala: lì non aveva più nulla da fare.

Continuazione 


 
Restava invece l’enigma di chi avesse avuto interesse a generare quell’inspiegabile disastro.
Un’altra gatta da pelare, si lamentò fra sé e sé mentre raggiungeva gli uomini di sotto. Finse di non accorgersi degli sguardi interrogativi che lo circondavano da ogni parte e tirò diritto. Prima di ogni altra cosa, si disse, avrebbe interrogato Melandro e Claretta, per sapere da loro se avessero notato qualcosa di sospetto nelle ore immediatamente prece­denti lo scoppio dell’incendio. Chissà come, si rammentò dello strano episodio dell’intruso raccontatogli proprio dallo stalliere alcuni giorni prima e per un momento pensò che i due fatti fossero collegati.
Raggiunse i figli di Melandro mentre i tre giovanotti erano impe­gnati a sgomberare i detriti che ingombravano l’area antistante la piccola dipendenza impedendone l’accesso. Nonostante tutto, l’abitazione dava l’idea di essere ancora in buono stato: di sicuro, la grande quantità di ac­qua riversata all’interno aveva evitato che le fiamme della scuderia prima e quelle sviluppatesi in casa Tolomei poi provocassero danni maggiori, oltre alla distruzione completa dei pochi arredi e delle modeste suppel­lettili.
– Non vediamo nostro padre da stanotte – disse il maggiore dei tre. – Dev’essere rimasto insieme a Claretta e al piccolo. Li troverete a casa di Rebecca, in fondo alla strada.
Sparviero ringraziò e si diresse verso la casa della donna. Cono­sceva Rebecca da sempre. Da diversi anni vedova del marito, vittima dei briganti sulla strada per Venezia ove era diretto per mercanteggiare in tessuti, la poveretta tirava avanti a stento, dandosi da fare con ricamo e cucito.
L’eco della confusione lo raggiunse quasi subito. Il vociare della piccola folla si mescolava al pianto disperato della donna e non ci volle molto perché lui ne riconoscesse la voce: era quella di Claretta.
Afferrato da un oscuro presentimento, coprì di corsa la breve di­stanza che ancora lo separava dalla casa di Rebecca, facendosi largo fra volti preoccupati e ragazzi gesticolanti. Trovò Claretta.in preda alla di­sperazione, singhiozzante e urlante fra le braccia del marito. Melandro aveva lo sguardo smarrito, come se stesse cercando intorno una risposta che non arrivava da nessuno e da nessuna parte.
Il piccolo Gedeone era sparito e, per quante ricerche fossero state condotte nella parte terminale della notte, di lui non era stata trovata traccia.

domenica 4 marzo 2012

Un simpatico quadretto tratto dal romanzo che ancora non c'è

 Per gli amici del blog ecco uno stralcio tratto dal nuovo romanzo. Si tratta di un simpatico quadretto nel quale i lettori troveranno un personaggio già noto e al quale spero si siano affezionati.

Sparviero era un uomo pratico.
Se ne stava seduto, anzi stravaccato sullo scanno, con la schiena appoggiata al muro, le gambe distese e le braccia ciondoloni, senza fare una piega: lui non aveva fretta.
Lasciò che il poveretto ingollasse il sorso di vino rimasto sul fondo e svuotasse il boccale fino all’ultima goccia. Adinolfi e Sua Grazia potevano aspettare: in fin dei conti, se quell’uomo si era rotto la schiena a cavallo, non lo aveva fatto per suo piacere e perciò aveva tutto il di­ritto di riprendere fiato. Lanciò uno sguardo al soriano che gli si stava strofinando contro gli stivali con la schiena inarcata e, a giudicare dalla sonorità delle fusa, satollo di soddisfazione. Considerò che quello era un animale fortunato: poteva godersi il calduccio fra le pareti della casa­matta e di tanto in tanto arraffare qualche avanzo lanciatogli dal perso­nale di guardia. Il pensiero non poté non volare a Gelinda: la donna detestava i gatti, tutti e senza eccezione per nessuno, e gli incauti che si azzardavano ad accostarsi all’uscio di casa venivano immancabilmente presi a scopate.
Dopo una frequentazione durata poco meno di un anno, per lo più portata avanti a colpi di sesso sfrenato, lui e Gelinda si erano decisi a compiere il gran passo, grazie anche alla dote generosa messa a dispo­sizione dal conte Roggero, testimonianza concreta della gratitudine del signore per quello che la giovane aveva fatto in occasione della vicenda di quasi tre anni prima. Adesso, lui e Gelinda vivevano nella stessa casa, quella di lei, posta appena fuori delle mura. A onor del vero, non tutti nella cittadella avevano accolto l’evento col sorriso sulle labbra, anzi. Pettegolezzi e lazzi erano partiti dai rappresentati di ambo i sessi, sep­pure con motivazioni divergenti.
Sul versante femminile, i motteggi più diffusi avevano preso di mira il passato recente di Gelinda. A questi si erano poi aggiunte le invettive acide di qualche pia donna che, non essendo più nel fiore degli anni, ben volentieri si sarebbe vista al posto di lei, anche se nel segreto delle proprie aspirazioni. Sul versante maschile, invece, più di un marito aveva digerito di mala voglia quelle nozze celebrate sotto tono e quasi di nascosto: col matrimonio di Gelinda si vedevano sprangare in via definitiva l’accesso alle scappatelle che, secondo un punto di vista del tutto personale, aggiungevano il giusto pizzico di sale al piatto sciapito della minestra quotidiana.
L’uomo si pulì l’angolo della bocca con l’estremità della manica e sostò con lo sguardo in direzione di Sparviero. L’espressione da rapace del capitano lo incuriosiva e intimoriva allo stesso tempo. D’un tratto si rese conto che l’ufficiale stava aspettando lui e accennò a un gesto di scusa.
– Così va molto meglio, grazie. Sono pronto e, se volete, potete accompagnarmi da messer Adinolfi.
Si alzò in maniera brusca, facendo ribaltare lo scanno che crollò sul pavimento con un tonfo. Il gatto schizzò di lato col pelo dritto e saettò soffiando verso la porta. Giovanni scoppiò in una risata divertita e spalancò l’uscio, liberando la via alla fuga del felino.
– Andiamo – esortò Sparviero afferrando il mantello di lana. – Giovanni, vieni anche tu.
Si avviarono di buon passo per le strade buie e maleodoranti della cittadella in direzione della piazza principale, il luogo dove sorgeva il palazzo del signore, ma anche quello nel quale si svolgevano gli eventi più importanti della vita sociale, incluse le esecuzioni capitali. Per fortuna l’allestimento della forca restava un avvenimento raro, grazie in primo luogo all’attività di prevenzione anticrimine esercitata con solerzia dagli uomini di capitan Sparviero.
Non un’anima viva incrociò il cammino dei tre uomini e le porte sprangate riproposero lo stesso messaggio consegnato ogni sera agli im­probabili passanti: la cittadella si richiudeva su sé stessa in attesa del­l’indomani, quando il sorgere del nuovo giorno avrebbe restituito ognuno alla propria occupazione e alle fatiche imposte dalla quotidiana sopravvivenza.

venerdì 17 febbraio 2012

Le fiamme dei roghi non possono bruciare le idee

Il giorno 17 febbraio 1600, quattrocentododici anni fa, in Campo dei Fiori veniva arso sul rogo Giordano Bruno. Il Nolano pagò con la vita il diritto ad avere una visione del mondo e della vita non omologa al pensiero dominante del tempo, quello dettato dalla Chiesa.
Dopo oltre quattrocento anni il pensiero del Nolano resta un esempio luminoso di coraggio e indipendenza intellettuale, espressione di un'anima libera dagli avvilenti legacci delle costrizioni dogmatiche.
'Arso, non confutato', Giordano Bruno testimonia la vittoria dell'intelligenza sull'ottusità, della fragranza della libertà delle idee sui miasmi della grettezza oscurantista.

giovedì 26 gennaio 2012

Un nuovo personaggio

Tenendo fede all'impegno assunto ieri sera con gli amici del blog, eccomi a parlare del nuovo romanzo. O meglio, eccomi a far parlare lui di sé stesso. Voglio presentarvi un personaggio nuovo che chi ha letto "La Signora del borgo" e poi "La fucina del diavolo" non ha ancora incontrato. Per essere sinceri, ero in dubbio se stralciare questo brano oppure farvene leggere un altro,  nel quale avreste trovato una figura di vecchia conoscenza, tratteggiata in modo tale evidenziarne, ancor più di quanto sia stato fatto ne "La fucina del diavolo", la natura volgare e gretta. Poi mi sono deciso per la novità ed eccovi perciò una gustosa anticipazione.
Buona lettura!

Monsignor Serpieri abbandonò il faldistorio sul quale era stato se­duto sino a un momento prima, apprezzando il tepore diffuso dal ca­mino. Purtroppo solo nelle immediate vicinanze, osservò il vescovo mentre si dirigeva verso il mobile dove custodiva i documenti impor­tanti. Aprì l’anta laterale e ne estrasse un plico all’apparenza simile ai tanti ammucchiati sul tavolo. La differenza stava tutta nel contenuto, oltre che nell’autorità del mittente.
Giovanni Serpieri rimirò il sigillo papale e non poté trattenere un moto d’orgoglio: era salito davvero in alto sulla scala ambita della gerar­chia ecclesiastica. L’ascesa, veloce e quasi esente da ostacoli, la doveva all’ambizione insaziabile che lo guidava fin dalla più giovane età. Certo, la brama di arrivare era stato il fattore determinante e di questo lui era consapevole, ma non poteva ignorare che a svolgere un ruolo decisivo erano stati anche gli appoggi della famiglia, una famiglia di antico rango e di spesso pelo che da diversi lustri aveva fatto dell’intrigo la ragione della propria vita. Il giovane Serpieri, rampollo promettente e sempre a proprio agio nel districarsi fra gli oscuri meandri della politica fatta di maldicenze opportunistiche e adulazioni interessate, aveva trovato, nel terreno corrotto e ipocrita di certa parte del clero, l’humus idoneo per piantarvi il seme dei propri sogni di grandezza e cogliere poi, piuttosto presto per la verità, il frutto maturo del potere rappresentato dal pasto­rale vescovile. Serpieri era giunto infatti alla porpora che aveva poco meno di trent’anni e adesso, a meno di quaranta e in odore di diventare cardinale, poteva vantare il prestigio che gli veniva dall’essere uno dei consiglieri più influenti del soglio pontificio e uomo di fiducia dello stesso papa. Non a caso Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, aveva voluto che fosse lui a sostituire il precedente prelato che l’Onnipotente, nella sua infinita bontà, aveva voluto chiamare presso di sé.
Slanciato nella figura, anzi ossuto, magro come una faina e bruno come un corvo, monsignor Serpieri emanava un fascino inquietante, si­nistro a ben vedere, cui tuttavia si diceva non restasse insensibile un certo tipo di donne. Al riguardo non erano poche le voci, ovviamente sussurrate fra i pochissimi ammessi alla ristretta cerchia dei confidenti, che volevano Sua Eminenza piuttosto incline a godere dei piaceri del letto ogni qualvolta l’occasione offriva, oltre alla floridezza della carne, anche adeguate garanzie di discrezione.
 Monsignor Serpieri rilesse la missiva ricevuta il giorno stesso: proveniva direttamente da Roma, dalla segreteria vaticana. Nel documento, indirizzato a lui e agli altri vescovi dislocati nei territori della Chiesa, il pontefice chiedeva di investigare, con la dovuta riservatezza, sui titolari delle signorie collegate alle rispettive diocesi. L’obiettivo era espresso senza mezzi termini: verificare il grado di fedeltà dei signori, ma anche e soprattutto capire l’eventuale reazione loro laddove il papa avesse deciso un’azione tendente a drenare il potere frammentato fra i vari feudi, di nome posti al servizio del papato, ma di fatto tendenti a consolidare lustro e ricchezza delle famiglie titolari. Lo scopo ultimo del papa, sebbene questo non fosse dichiarato in modo esplicito, non era impossibile da immaginare: se fosse andato in porto il progetto legato al viaggio in Francia di Cesare Borgia, ben presto e per il gioco della potente alleanza che ne sarebbe scaturita, vi sarebbero state le condizioni per dare il via a un’operazione militare di largo respiro, magari condotta dallo stesso figlio del papa e mirante a concentrare il governo dei territori della Chiesa nelle mani di un solo uomo. Tanto meglio se, in prospettiva, la monarchia che di fatto sarebbe andata a costituirsi avesse acquisito poi carattere ereditario.
Il vescovo ripiegò il plico che ripose al proprio posto. Una richiesta inoltrata dagli uffici vaticani, si disse, imponeva solerzia. Decise perciò che vi avrebbe dato seguito immediato. Afferrò il campanellino dal tavolo e prese a scuoterlo con veemenza.

venerdì 23 dicembre 2011

AUGURI!

Agli amici tutti e ai sostenitori del blog l'augurio più caro, mio e della mia famiglia, di trascorrere in serenità le Festività che si stanno affacciando alle nostre case. Grazie a tutti per il sostegno che avete dato al blog e all'ospite e grazie per la vostra partecipazione, sempre attenta e sempre attesa.

sabato 5 novembre 2011

Uomini e Istituzioni

In questo uggioso pomeriggio di pioggia insistente, saltellando qua e là tra il tanto materiale depositato sul mio pc, mi sono ritrovato a ripercorrere i commenti che alimentarono e vivacizzarono il dialogo del blog già al suo debutto in rete. L’attenzione si è soffermata su un commento piuttosto pepato, risalente a due anni fa, e in particolare su una considerazione che ha poi dato spunto alle riflessioni che mi piacerebbe condividere con gli amici che seguono le mie avventure letterarie – e non solo con loro.
La considerazione è la seguente:

“…ma voglio far notare al titolare come ai frequentatori di questo blog […] che i tanti meriti della Chiesa sorpassano - e di molto - gli errori umani compiuti dai suoi appartenenti nel corso della storia.”

Premetto subito che non intendo entrare nel merito dell’osservazione, anche perché sono convinto che sul piano dell’analisi storica abbia assai poco senso verificare che il bilancio in questione si chiuda con una voce preceduta dal segno + invece che dal segno –. Allo storico che voglia studiare con atteggiamento scientifico, con l’intento di analizzare per comprendere e non per giudicare, devono interessare i fatti, le cause che li hanno prodotti, le loro dinamiche e le conseguenze indotte. Dunque, a un simile approccio mal si addicono i giudizi e gli eventuali pregiudizi, positivi o negativi che siano. Ovviamente, trattandosi di fatti attinenti alla storia dell’umanità, concorderete con me che questi stessi fatti vadano ricondotti ai comportamenti umani e alle idee che ne sono state matrice.
Ora, nella frase sopra riportata, sono stato catturato, più che dalla considerazione espressa, da una questione di metodo, per la quale si sarebbe portati a separare nettamente l’istituzione (nella fattispecie la Chiesa) dai propri appartenenti.
Questo tipo di atteggiamento non è sporadico e ricorre ogni qualvolta ci si trova di fronte a qualcosa che non si riesce a metabolizzare, tanto sul piano storico quanto su quello ideologico. In questi casi, la conclusione è sempre la stessa: gli errori sono umani, mentre i meriti sono dell’istituzione che diventa così una sorta di identità avulsa dagli uomini, dalle loro miserie (purtroppo frequenti) e dalle loro grandezze (purtroppo rare). I sociologi direbbero, con una brutta espressione, che si tende a “reificare”, cioè a rendere “cosa” (res) concreta ciò che altrimenti resterebbe astratto e semmai ideale. Non sarebbe più semplice e metodologicamente corretto attribuire invece agli esseri umani tanto gli errori quanto i meriti?
Una istituzione, di qualunque istituzione si tratti, ha in generale un fondamento ideale, quasi sempre trasfuso in essa dal suo o dai suoi fondatori ma poi, nel corso della propria vita, si veste di storia reale, fatta dalle azioni, dalle prese di posizione e spesso dalle responsabilità, contingenti e storiche, di coloro che la attraversano nel tempo. Perciò diventa ingiustificato, oltre che improduttivo, il tentativo di separare l’una dagli altri e viceversa. Le istituzioni non agiscono mai da sole ma sempre attraverso gli uomini che se ne fanno portavoce, sia nel dar luogo ad atti meritori, sia nel perpetrare le più scellerate nefandezze.
Nel caso della Chiesa, citato dalla nostra commentatrice, il tentativo di separare il fondamento ideale dal processo di storicizzazione, quando non è compiuto con intenti mistificatori, trova la sua origine nella visione mistica che vuole l’istituzione come emanazione diretta del volere divino (solo di sfuggita vorrei far notare che di tale volere si sono sempre fatti interpreti e tramiti degli esseri umani, con tutto il loro corredo di vizi e virtù, a seconda dei casi).
A mio modesto avviso, questo modo di vedere, che non esiterei a definire schizoide, trova il suo corrispondente nella scissione operata a suo tempo tra la dimensione umana e la supposta dimensione ultraterrena, soggette rispettivamente all’azione destabilizzante del demonio e a quella imperscrutabile dell’Onnipotente. E così, fra i due principi contrapposti, l’uno personificante il Bene assoluto e l’altro il Male, anch’esso assoluto, l’essere umano si trovò collocato nel bel mezzo dell’eterna dialettica, col proprio libero arbitrio, ma quest’ultimo molto relativo. Relativo ai tempi, alla morale, alla ragion di stato e così via.
Purtroppo, pare proprio che l’abitudine a separare le istituzioni dagli esseri umani non sia stata abbandonata. Lo vediamo ancora oggi in molti degli esempi che cadono quotidianamente sotto i nostri occhi: gli errori sono originati da schegge deviate, ovvero da indegni e corrotti rappresentanti di consessi che altrimenti – e talvolta per definizione – sarebbero avulsi da ogni umana debolezza.
Per indole, non sono portato a cercare altrove, se non nella propria natura e nella propria storia, il seme di ogni aberrazione come di ogni slancio nobile. Forse è anche per questo che i personaggi dei miei romanzi sono in primo piano, mentre le istituzioni fanno appena da sfondo. Ed è anche per questo che non possono fuggire dalla responsabilità conseguente alle scelte che compiono.
Sono esseri umani e non paraventi di artefatti ideologici.

mercoledì 7 settembre 2011

Il cinema italiano d'autore ritorna per la penna di Valtergano

Per gli amici del blog, riporto la recensione sottostante, scovata sul sito http://www.ciao.it/

La fucina del diavolo" di Ennio Valtergano. Avvincente quanto una giornata a Gardaland e impeccabilmente storico quanto un libro di Umberto Eco. C'è l'amore e il giallo alla tenente Colombo, c'è l'erotismo mai volgare e l'abilità cinematografica dei film di Charlie Chaplin che restituisce spaccati di quotidiano ancora attuali. Presi dall'incalzare di un'avventura costruita ancora con la tecnica del contrappunto, come ne "La Signora del borgo", si corre il rischio di non notare la fluidità narrativa e la vivacità di ambienti e paesaggi realisticamente restituiti. Le emozioni e i sentimenti sono degni della miglior recitazione teatrale, con un verismo che meriterebbe di sostare sulla pagina, resistendo all'impulso prorompente di sapere come andrà a finire... Giselle si è fatta donna, ma guarda oltre l'amore di un uomo. Adinolfi pare costruito con l'acciaio dei suoi occhi grigi, ma in fondo si comporta come il soldato di una Legge sovrumana. L'efferatezza di chi ha detenuto e perso il potere tocca punte che nulla invidiano alla cronaca più nera. Il fulgore della speranza e della tenacia, che spesso appaiono inutili e perdenti, è coperto da un velo degno della nebbia londinese... Ma siamo fra Bologna, Forlì e il Montefeltro, in un XVI secolo appena embrionale cullato da scienza e religione e proteso alla ricerca dell'uomo.

Dopo l'affresco del primo libro, questo quadro vivente dell'Italia-che-fu merita le ore che Valtergano ci regala e, sicuramente, un posto in biblioteca.

martedì 30 agosto 2011

A proposito di notorietà

Rispondo con questo post a chi, con molta franchezza, mi fa osservare che sono poco noto e che non faccio abbastanza per esserlo di più.

Premetto che sono dell’idea che, in questo mondo, di gente pronta a farsi sentire ve ne sia già troppa e davvero non sento il bisogno di aggiungere la mia alle voci urlanti nel bailamme dell'esibizionismo sfrenato. Neppure tendo a disperarmi, come qualche amico del blog appare propenso a credere, ma prendo atto dello stato di cose attuali. Come si può notare - e questo blog ne è un esempio - ricorro anch'io ai mezzi offerti dalle moderne tecnologie solo che, in luogo di utilizzarli come megafono per amplificare la mia sola voce, cerco di impiegarli in una maniera che a me pare più utile, ossia circoscrivendo attraverso questi stessi mezzi degli spazi di confronto, di dialogo e di libero scambio di opinioni. D'altra parte, anche la mia partecipazione a qualcuno dei social network oggi imperanti nel web risponde al medesimo criterio e, a ben vedere, i miei stessi romanzi si pongono e si propongono come stimolo alla riflessione del lettore più che come prodotti destinati ad essere consumati nel volgere di qualche ora per essere gettati subito dopo.
Mi rendo perfettamente conto di quanto oggi valga l'equivalenza notorietà = vendita sicura = danaro, la quale equivalenza ha indubbiamente una sua validità, se non fosse che alla base della stessa vi è una domanda cruciale: quanto occorre spendere del tempo della propria vita – e non solo di quello - per raggiungere il livello di notorietà adeguato all'innesco efficace degli altri due fattori restanti? Sempre che sia poi questo l'obiettivo vero dell'intera faccenda.
Intendiamoci, non voglio apparire né scrivere come "un figo" e mi piace essere altrettanto franco con gli amici del blog. Comincio perciò dall’età.
Riguardo a questa, non sono convinto che la stessa rappresenti un elemento condizionante in assoluto: ho superato da poco i sessanta ma resto fermo nell'ostinazione che il cervello risponda a meccanismi diversi rispetto al resto dell'organismo biologico. E neppure penso che a influenzare il modo di scrivere sia il tipo di studi fatti, i quali, per altro, si estendono su un ventaglio piuttosto ampio che va da quelli tecnico-scientifici a quelli umanistici (non mi si fraintenda, la relativa ampiezza del ventaglio dipende unicamente dalla quantità di tempo vissuto: ci deve pur essere qualche vantaggio all’età che avanza!). Semmai, bisogna dire che spesso il modo di scrivere risponde a scelte volute, alla cui base sta l'obiettivo del quale si parlava prima. Inutile negarlo, ma vi è chi scrive con l’intento preciso di raggiungere il bacino più largo possibile in modo da vendere il maggior numero di copie possibile. Ora, allargare il bacino di utenza significa necessariamente avere come riferimento un target culturale che si diversifica in modo proporzionale all’estensione del bacino dei lettori e a questo corrispondono spesso gusti e pretese che male incontrano rigore e ricchezza espressiva. Accade allora che per incontrare i gusti dei più si tende talvolta a sacrificare qualcosa in nome di una semplificazione necessaria e in linea con le tendenze di mercato. In altri termini, si scrive quello che si pensa si venda meglio.
Io per parte mia, preferisco scrivere come so scrivere e come ritengo che valga la pena di scrivere, in primo luogo per il rispetto che devo al tempo della mia vita e soprattutto per quello che devo al tempo di chi mi legge. Del resto, anche questa posizione, che potrebbe forse apparire un tantino rigida, risponde a una considerazione di fondo: siamo tutti destinati a morire e non credo che giungere al momento estremo con un po’ di notorietà in più o in meno, o con qualche centinaia o migliaia di euro in più o in meno faccia la differenza. Vorrei credere, nell’ingenuità dei miei appena sessanta anni (e qualcuno di più), che il modo in cui si spende la propria vita, e perciò il significato che le si attribuisce, quello sì che fa la differenza vera.

O no?

martedì 7 giugno 2011

La fucina del diavolo - Il testo della Quarta di copertina

26 gennaio 1496. Nel cielo terso del Montefeltro si assiste a un fenomeno prodigioso: in pieno giorno la volta celeste è solcata da misteriose scie luminose precedute da una dozzina di boati, in­spiegabili data l’assenza di nuvole. Qualche tempo dopo la gente della Valdinoce raccoglie alcuni sassi dall’aspetto insolito che, nell’immaginazione popolare, paiono scaturiti dalla fucina del diavolo. Su di essi si concentra l’attenzione di un manipolo di studiosi aderenti a un’organizzazione clandestina facente capo a Cornelio Adinolfi e alla quale non è estranea Eliside, enigmatica figura di donna nota ai più come la Signora del borgo. L’idea è che le misteriose pietre cadute dal cielo possano gettare nuova luce sulla natura dell’universo, una luce che spazzerebbe vie le vecchie idee ancorate al sistema di pensiero aristotelico e incardi­nate nella concezione biblica del mondo.
Nel tentativo di recuperare i reperti di Valdinoce si inserisce un bieco disegno di vendetta e i misteriosi sassi diventano cataliz­zatori dei sentimenti più disparati, dal tradimento al senso dell’onore, dalla turpitudine all’abnegazione.
La vicenda è il seguito naturale di quella narrata in La Signora del borgo e anche qui, come già nel primo romanzo di Ennio Valtergano, il lettore resterà preso e affascinato dalla straordinaria figura di Giselle e dalla sua dimensione di donna senza tempo.