L’incendio era avvampato d’improvviso. Violento.
I bagliori accesi dalle lingue di fuoco andavano a fondersi con i guizzi rosso vivo del tramonto, squarciando la volta di cielo sovrastante la cittadella. La prima a subire l’aggressione del fuoco era stata la scuderia, costruita per massima parte in legno. Le pareti esterne non avevano impiegato molto per essere divorate dalle fiamme che subito dopo si erano estese alla struttura e alle travi di sostegno del tetto.
I nitriti delle bestie, levatisi allo sprigionarsi del fumo e delle avvisaglie della combustione, avevano dato l’allarme e Melandro, aiutato dai figli, per fortuna tutti in casa, era riuscito a portare fuori i cavalli prima che accadesse il peggio. L’operazione era andata a buon fine, ma a costo di spendere tempo prezioso e così, quando lo stalliere e i figli avevano rivolto l’attenzione alle fiamme, queste, non affrontate e domate nei primissimi minuti e anzi alimentate dalla paglia presente in abbondanza, avevano avuto modo di avviluppare l’intera stalla.
Con uno schianto secco, mentre Melandro e i tre figli maggiori si stavano affrettando con tini e recipienti di fortuna, il tetto crollò in una esplosione di scintille e schegge incandescenti. I frammenti infuocati volarono dappertutto e alcuni di essi penetrarono attraverso una delle finestre della piccola abitazione adiacente alla stalla.
Fu questione di poco. Le urla di Claretta sovrastarono per un momento il rumore sordo e il crepitìo prodotti dall’incendio. Melandro mollò il secchio, che si rovesciò spargendo l’acqua intorno, e si precipitò dentro. Fu preso alla gola da una zaffata di fumo acre e caldo. Tossì più volte e in preda all’ansia fece correre lo sguardo in giro, cercando con gli occhi Claretta e il bimbo. Il fuoco aveva già aggredito l’asse che faceva da tavolo, i cavalletti che lo sostenevano e gli scanni; le prime fiamme avevano preso a lambire gli infissi e la porta. Presto si sarebbero avvinghiate a tutto quello che avessero trovato di combustibile.
– Claretta – urlò lo stalliere con voce roca, mentre si precipitava verso il letto.
Claretta era lì, gli occhi sbarrati e impietrita dal terrore, con Gedeone che le si abbrancava al petto urlando e piangendo.
Senza stare a pensare, Melandro afferrò la coltre dal letto e la gettò intorno alle spalle della moglie, coprendole la testa e facendo in modo che riparasse anche il piccolo. Afferrò Claretta per un braccio e la trascinò verso l’uscio, attraversando il locale invaso dal fumo. Appena fuori respirò a pieni polmoni e lasciò che la moglie e il piccolo facessero altrettanto.
– Lasciate perdere la stalla e pensate alla casa – urlò ai figli mentre si dirigeva verso il portone di ingresso. – Metto al sicuro Claretta e il bambino e torno da voi.
Uscì in strada e si trovò circondato dai primi volenterosi. Si trattava soprattutto di giovani, ma non mancavano uomini già maturi e qualcuno addirittura attempato: erano stati richiamati dai bagliori delle fiamme, a buona ragione preoccupati dalla possibilità che l’incendio si estendesse alle case vicine.
– Date una mano ai miei figli – li esortò con la voce ancora roca per il fumo ingoiato poco prima, – il fuoco ha attaccato la casa.
Melandro lasciò Claretta e Gedeone nei pressi di Rebecca, una conoscente uscita anche lei in fondo alla strada, e tornò indietro di corsa. Urlò ai sopravvenuti di portare tutti i secchi e i tini disponibili: era indispensabile organizzare alla meglio una catena che consentisse di far convergere sul fronte delle fiamme, il più rapidamente possibile, l’acqua prelevata dal pozzo antistante la stalla, ormai ridotta a un cumulo di macerie fumanti.
Nel volgere di poco la catena era all’opera. Due dei figli di Melandro si davano da fare al pozzo, mentre gli uomini, organizzati su duplice fila e al comando dello stesso Melandro, riversavano fiumi d’acqua sui resti delle travi ancora in fiamme e all’interno della casa dello stalliere. A giudicare dall’intensità e dall’estensione del fuoco, v’era da pensare che ben poco di quel che si trovava in casa sarebbe stato sottratto alla furia ignea. Ma gli uomini mostravano di non darsene da conto e anzi procedevano con impegno, cadenzando l’azione di braccia e gambe sul ritmo degli incitamenti vocali. L’opera di spegnimento proseguì senza interruzione fino a tramonto inoltrato e finalmente il fumo nerastro lasciò il posto alle volute biancastre, segno che il fuoco era ormai sul punto di estinguersi del tutto. Dalle due file si levarono espressioni di esultanza, seguite da energiche pacche sulle spalle e reciproche congratulazioni.
Ma l’euforia durò poco.
D’un tratto, così come erano esplose, le grida di vittoria si spensero insieme alle ultime fiamme visibili e gli sguardi si incrociarono nell’espressione smarrita della delusione.
I rigagnoli nerastri che fuoriuscivano dalle finestre di casa Tolomei non annunciavano nulla di buono.
Il mattino dopo, alle prime luci dell’alba, Sparviero si aggirava fra le macerie ancora fumanti, sotto gli sguardi esausti che bucavano volti anneriti dal fumo e rabbuiati dalla fatica. Aveva l’aria più torva che mai: della dimora dei Tolomei non era rimasto quasi più nulla oltre ai muri calcinati. Il capitano scavalcò quel che restava di una trave carbonizzata e procedette con cautela: il rischio di altri crolli era ancora vivo, anche se in piedi era ormai rimasto ben poco. Si lasciò andare a un’imprecazione colorita, mentre osservava desolato la devastazione prodotta dalle fiamme. Se la distruzione causata dall’incendio non aveva assunto le proporzioni della tragedia, si disse, lo si doveva al lavoro instancabile degli abitanti della cittadella e dei suoi uomini, andato avanti per l’intera notte.
Usando il lembo della casacca a mo’ di straccio, uno degli appartenenti al piccolo esercito di volontari stava tentando invano di ripulirsi il volto dalla caligine nerastra.
– Gran brutto affare – commentò. – Si direbbe che il destino si sia voluto accanire su questa famiglia sfortunata, completando col fuoco la persecuzione iniziata quattro anni fa.
– Già – bofonchiò secco Sparviero. Si chinò verso la poltiglia informe per raccogliervi un oggetto che aveva attirato la sua attenzione. Si trattava di una posata. Di una forchetta, per la precisione. L’oggetto faceva parte della minuscola collezione di strumenti tanto insoliti quanto rari che i Tolomei usavano a tavola in luogo delle mani o del solo coltello. Di quella stravaganza era andata fiera soprattutto Corinda, la moglie del notaio Ugo Tolomei rimasta poi vedova col suicidio del marito. La raffinata ricercatezza della nobildonna, perita anch’essa in tragiche circostanze, era stata spesso materia di commenti e di spettegolio: evidentemente, l’invidia rappresentava una qualità non rara entro le mura della cittadella e le chiacchiere ci mettevano poco per rimbalzare di bocca in bocca, specialmente fra le donne di un certo lignaggio, quelle che non avevano di che trascorrere il proprio tempo.
Per un po’ l’ufficiale stette a osservare con curiosità tinta di mestizia l’oggetto deformato dal calore, poi scosse il capo e lo restituì al fango. Riprese a camminare, sempre tenendo lo sguardo all’altezza del suolo come se cercasse qualcosa, ma senza sapere lui stesso cosa stesse cercando.
Si avventurò per la scala in pietra, unica parte dell’edificio che pareva miracolosamente intatta, con l’idea di ispezionare il piano superiore e sempre che le condizioni dei resti glielo avessero consentito. Senza abbandonare la prudenza, saggiò la solidità del pavimento del ballatoio.
Pareva tenere.
Avanzò radente al muro, lungo il tratto che, a suo giudizio, offriva più sicurezza. Raggiunse il vano dove un tempo era installato l’uscio in legno massiccio. I cardini semifusi testimoniavano dell’inaudita violenza del fuoco. Buona parte del pavimento non esisteva più: sostenuto da travi in legno, era crollato una volta che gli era venuto meno l’appoggio. Delle travi portanti rimanevano solo alcuni monconi ancora incastrati nel muro. Sparviero considerò che, attaccata dal fuoco, la parte centrale delle travi doveva essere crollata piuttosto in fretta, lasciando i monconi semicarbonizzati ma ancora in grado di sostenere la parte periferica del pavimento, quella più vicina ai muri di sostegno.
Di nuovo, portò il piede destro in avanti, esercitando una decisa pressione con lo stivale. Rassicurato sulla tenuta, decise di avanzare con circospezione, sotto gli occhi allibiti degli uomi rimasti a guardare di sotto, preoccupati per quello che a loro aveva tutta l’aria di essere un comportamento sconsiderato.
Aveva fatto appena pochi passi quando notò in un angolo qualcosa di strano. Con grande cautela raggiunse l’oggetto della sua attenzione e si chinò per raccoglierlo. Si trattava di un pezzo di legno semicombusto, attorno al quale rimanevano avvolti dei frammenti di straccio, anch’essi, inspiegabilmente, non del tutto consumati dal fuoco. Sparviero fece scorrere uno dei frammenti fra i polpastrelli di pollice e indice e portò subito dopo le dita alle narici. Comprese all’istante.
Catrame.
Fra le mani stringeva i resti di una torcia rudimentale.
Dunque, l’incendio era stato appiccato di proposito. Probabilmente innescato in più punti, concluse l’ufficiale. Chi aveva deciso di dare alle fiamme l’abitazione dei Tolomei aveva eseguito il lavoro con la precisa intenzione di distruggere ogni cosa.
Ma a quale scopo?
Scosse di nuovo il capo, tornò sui propri passi e riguadagnò la scala: lì non aveva più nulla da fare.
Continuazione
Restava invece l’enigma di chi avesse avuto interesse a generare
quell’inspiegabile disastro.
Un’altra gatta da pelare, si lamentò fra sé e sé mentre raggiungeva gli
uomini di sotto. Finse di non accorgersi degli sguardi interrogativi che lo
circondavano da ogni parte e tirò diritto. Prima di ogni altra cosa, si disse, avrebbe
interrogato Melandro e Claretta, per sapere da loro se avessero notato qualcosa
di sospetto nelle ore immediatamente precedenti lo scoppio dell’incendio.
Chissà come, si rammentò dello strano episodio dell’intruso raccontatogli
proprio dallo stalliere alcuni giorni prima e per un momento pensò che i due
fatti fossero collegati.
Raggiunse i figli di Melandro mentre i tre giovanotti erano impegnati
a sgomberare i detriti che ingombravano l’area antistante la piccola dipendenza
impedendone l’accesso. Nonostante tutto, l’abitazione dava l’idea di essere
ancora in buono stato: di sicuro, la grande quantità di acqua riversata all’interno
aveva evitato che le fiamme della scuderia prima e quelle sviluppatesi in casa
Tolomei poi provocassero danni maggiori, oltre alla distruzione completa dei
pochi arredi e delle modeste suppellettili.
– Non vediamo nostro padre da stanotte – disse il maggiore dei tre. –
Dev’essere rimasto insieme a Claretta e al piccolo. Li troverete a casa di
Rebecca, in fondo alla strada.
Sparviero ringraziò e si diresse verso la casa della donna. Conosceva
Rebecca da sempre. Da diversi anni vedova del marito, vittima dei briganti
sulla strada per Venezia ove era diretto per mercanteggiare in tessuti, la
poveretta tirava avanti a stento, dandosi da fare con ricamo e cucito.
L’eco della confusione lo raggiunse quasi subito. Il vociare della
piccola folla si mescolava al pianto disperato della donna e non ci volle molto
perché lui ne riconoscesse la voce: era quella di Claretta.
Afferrato da un oscuro presentimento, coprì di corsa la breve distanza
che ancora lo separava dalla casa di Rebecca, facendosi largo fra volti
preoccupati e ragazzi gesticolanti. Trovò Claretta.in preda alla disperazione,
singhiozzante e urlante fra le braccia del marito. Melandro aveva lo sguardo
smarrito, come se stesse cercando intorno una risposta che non arrivava da
nessuno e da nessuna parte.
Il piccolo Gedeone era sparito e, per quante ricerche fossero state condotte
nella parte terminale della notte, di lui non era stata trovata traccia.